«Stato Islamico» Origini, obiettivi, punti di forza e di debolezza

Lo scorso giugno, le forze armate dello Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS) hanno preso la città irachena chiave di Mosul, estendendo il proprio controllo  su ampie porzioni della Siria centro-orientale e del nord-ovest iracheno. Nel frattempo il leader del movimento, il terrorista giordano Abu Bakr al-Baghdadi, ha proclamato la nascita di un nuovo califfato, espandendo le proprie mire ben al di là di Mesopotamia e Levante. A pochi giorni dall’insediamento di un nuovo governo a Baghdad, le sorti della sintesi statuale irachena appaiono ancora fortemente in bilico. Cerchiamo, quindi, di capire alcuni punti fondamentali per avere un quadro il più completo possibile sulle origini socio-politiche, sugli obiettivi, sui punti di forza e di debolezza del sedicente Stato Islamico.

 

L’ascesa di al-Baghdadi e la rinascita dell’ISI (Stato Islamico dell’Iraq)

Siamo nel post-Bin Laden e siamo in Iraq. L’ISIS nasce come un’evoluzione del movimento fondamentalista iracheno al-Qaida. Nel 2010, la descrizione degli ufficiali iracheni ed esperti internazionali sull’ISI (Stato islamico dell’Iraq) era quella di un movimento attivo ma all’ombra di se stesso, schiacciato dalla pressione delle forze di sicurezza, osteggiato dalla popolazione locale e abbandonato da buona parte dei propri patroni internazionali. Il gruppo, che per anni aveva costituito la punta di diamante dell’insurrezione arabo-sunnita, sembrava prossimo alla definitiva eliminazione. Dal 2006 in avanti, il movimento aveva dovuto far fronte ad una serie di colpi durissimi che avevano finito col metterne in discussione la stessa sopravvivenza.

All’uccisione nel giugno 2006 di Abu Musab al-Zarqawi, fondatore e leader indiscusso del gruppo iracheno di al-Qaida, avevano fatto seguito, infatti, il voltafaccia degli ex alleati arabo-sunniti, l’intensificazione delle operazioni condotte dalle Forze di sicurezza irachene (ISF) e americane e il fallimento del progetto di Stato islamico all’interno delle province irachene a maggioranza arabo-sunnita. Nel 2010, a soli tre anni dalla proclamazione della nascita dell’ISI, il movimento era stato espulso dall’Iraq centrale e costretto a trovare rifugio a Mosul e dintorni; inoltre aveva dovuto far fronte all’eliminazione dei suoi due leader di punta, Abu Ayyub al-Masri e Abu Omar al-Baghdadi. È in questo contesto che emerge la figura di Abu Bakr al-Baghdadi. In pochi mesi, il nuovo leader riuscì a imprimere una svolta decisiva alle sorti dell’ISI, riorganizzandone le fila e non esitando a eliminare gli esponenti ritenuti non affidabili. Decisiva, però, fu la capacità di al-Baghdadi di sfruttare la critica situazione regionale e la profonda crisi sociopolitica che, a partire dal 2001, investì Siria e Iraq. Tre furono i principali fattori destabilizzanti che contribuirono a creare le condizioni perfette per un ritorno in grande stile della formazione jihadista: la primavera araba, il ritiro delle forze statunitense dall’Iraq nel dicembre 2011 e la dilagante polarizzazione della regione lungo linee etno-settarie.
In Iraq, particolarmente, determinanti furono le controversie politiche adottate dall’amministrazione del Primo Ministro sciita Nuri al-Maliki, che aveva disatteso le aspettative che circondavano il suo secondo mandato, avviandosi verso una deriva autoritaria. Al-Baghdadi riuscì a sfruttare queste tensioni e a ristabilire parte delle relazioni che avevano permesso in passato al suo movimento di radicarsi nel tessuto arabo-sunnita del paese. Egli, però, non disponendo di forze e risorse sufficienti a garantire il suo ritorno in grande stile nell’Iraq centro-meridionale dovette fare i conti con la difficile eredità derivante dalle faide ingaggiate negli anni con gli ex alleati dell’insurrezione. E’ in questo contesto che si colloca la decisione del leader islamista di puntare le proprie fiches al tavolo della guerra siriana: il paese era divenuto il polo di attrazione per migliaia di jihadisti, era al centro dell’attenzione mediatica globale e vedeva confluire al suo interno flussi di finanziamento di portata e intensità tali da superare ampiamente i livelli registrati in Iraq. Esso era, inoltre, l’occasione per ripulire l’immagine dei guerriglieri dello Stato Islamico partecipando ad un conflitto contro un regime sciita macchiatosi  del sangue della sua stessa popolazione. Un contingente di combattenti guidati da Abu Muhammad al Julani venne, quindi, inviato in Siria, dove prese il nome di Jabbar al-Nusra (JAN), diventando in pochi mesi uno dei movimenti più importanti dell’opposizione a Bashar al-Assad e permettendo ad al-Baghdadi di beneficiare di un afflusso crescente di volontari, fondi e armi provenienti da tutto il mondo.

 

Dalla proclamazione dello Stato Islamico dell’Iraq e della Siria alla nascita del nuovo califfato

Erano i prodomi di una strategia che portò le forze dell’ISI a intensificare la propria campagna sul suolo iracheno attraverso una nuova stagione di attentati dinamitardi, esecuzioni mirate, attacchi alle istituzioni e assalti alle carceri. Una campagna che, a partire dalla seconda metà del 2013, subì una svolta significativa, sancita dalla proclamazione dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS, o Daesh, dall’acronimo in lingua araba), dalla rottura con la leadership di Jabhat al Nusra e della stessa al-Qaeda e dall’abbandono delle politiche concilianti adottate in precedenza con le diverse anime dell’insurrezione. In questo modo al-Baghdadi inviava un chiaro segnale: lo Stato Islamico non doveva più essere considerato come una mera forza paramilitare ma come una realtà statuale a pieno titolo. Le ingenti risorse e le elevate capacità operative del movimento furono messe al servizio di un’offensiva sempre più serrata di crisi che investì la zona centrale arabo-sunnita irachena e che sembrava puntare direttamente alla capitale. Mentre l’attenzione era rivolta a Baghdad, però, le forze di al-Baghdadi creavano le premesse per quella che è considerata come la vittoria militare più importante conseguita da un gruppo jihadista dai tempi dell’affermazione dei talebani in Afghanistan: la presa di Mosul, la seconda città irachena per importanza. Mosul era da anni al centro della strategia dell’ISIS, grazie all’esistenza di una fitta rete di attività illecite che avevano permesso al movimento di trarre importanti risorse economiche e di controllare interi quartieri. Il resto è storia recente, con la caduta della città irachena Tikrit e di buona parte del nord-ovest iracheno, la proclamazione di un nuovo califfato, l’ingresso delle formazioni del Kurdistan a Kirkuk, la vessazione e il massacro di yazidi e cristiani e l’avanzata delle forze del Daesh, fermata a pochi chilometri da Baghdad solo grazie agli sforzi congiunti di peshmerga – in kurdo “colui che si trova di fronte alla morte” (pesh: prima, merga: morte), ossia soldati dell’esercito Kurdo – milizie sciite e reparti dell’ISF sostenuti dai radi aerei americani e dal supporto meno evidente di Teheran.

 

Quali futuri scenari per Siria e Iraq

Nonostante le significative capacità dimostrate sul campo dalle milizie di al-Baghdadi e il controllo esercitato su un’area che attraversa Siria e Iraq, l’ISIS non è un nemico invincibile né una realtà statuale destinata per forza di cose ad alterare perennemente il profilo geopolitico della regione. Anche se non esistono stime attendibili della consistenza numerica del gruppo, esso pare contare su poche migliaia di membri a pieno titolo. Inoltre, queste forze si sono dimostrate molto efficaci in fase offensiva, ma non è che detto possano dimostrarsi altrettanto abili in fase difensiva, anche a causa delle ingenti risorse che il gruppo deve dedicare all’amministrazione del territorio. In questo contesto, la formazione del nuovo governo iracheno sotto la guida di Haider al-Abadi può rappresentare un punto di svolta in grado di allontanare gli attori arabi sunniti dall’ISIS e di riavvicinarli allo Stato Iracheno. Questo, però, potrà avvenire solo nel caso in cui verrà avviato un vero piano di riconciliazione nazionale sostenuto politicamente, economicamente e sul piano della sicurezza dalla comunità internazionale. Non basta la nomina di esponenti di punta del panorama politico arabo-sunnita iracheno (al-Nujaifi, al-Mutlaq e al-Jiburi su tutti) per riavvicinare Baghdad alla “pancia” della comunità. È necessario un’azione ad ampio raggio che unisca alla lotta sul campo garanzie precise alla tribù e alle formazioni dell’insurrezione e che eviti di ripetersi di episodi simili a quelli avvenuti a opera delle milizie sciite dopo la riconquista di Amerli. Determinante sarà anche il sostegno che i principali attori regionali – Arabia Saudita, Iran e Turchia su tutti – vorranno fornire al nuovo corso iracheno e la loro posizione in relazioni al dossier siriano. Le timide aperture e il recalcitrante appoggio offerto alla nuova “coalizione dei volenterosi” riunita dall’Amministrazione Obama non paiono offrire garanzie sufficienti (anche a causa dell’esclusione formale di Teheran e Damasco), soprattutto qualora si perseguisse nell’attuale politica di guerra per procura.

Al-Baghdadi ha già dimostrato in passato di essere in grado di colpire con rapidità ed efficacia laddove meno ce lo si aspetti. Dopo esser riuscito nel giro di pochi mesi a estendere la propria autorità su un’area grande più o meno come il Regno Unito, potrebbe alzare nuovamente l’asticella dello scontro e puntare questa volta al big prize della regione o all’interno del mondo occidentale. Magari servendosi dei foreign fighters (combattenti stranieri, molti dei quali provenienti  dal mondo arabo e da paesi occidentali) che si sono dimostrati determinanti nell’ascesa dell’ISIS.

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